Forme senza tempo. L’architettura di Max Dudler – “PresS/Tletter”

venerdì, 18 giugno 2010

La razionalità del controllo spaziale attraverso il reticolo cartesiano che scompartisce lo spazio sia in alzato che in copertura, a conferire unità e continuità al manufatto architettonico. Il rigore della geometria a realizzare volumi netti, puri. L’assoluta chiarezza espressiva, plastica, volumetrica e materica. Sono questi gli elementi essenziali dell’opera di Max Dudler, cinquattottenne architetto tedesco che unisce al suo impegno accademico presso la Kunstakademie di Düsseldorf una intensa e fortunata attività professionale, con studi a Berlino, Francoforte e Zurigo.

L’architettura di Dudler muove da cinque punti fondativi: continuità, riservatezza, sensualità, scultoreità, assieme  (M. Dudler, Umbau der Stadt, in J. Christoph Bürkle, Urs Stuber [a cura di], Max Dudler. Architekt, Berlino, 1996). Basandosi quasi esclusivamente su uno studiato gioco tra pieni e vuoti e sul rapporto tra luci ed ombre, essa si muove perfettamente sulla traccia degli insegnamenti di Oswald Mathias Ungers, nel cui studio Dudler ha lavorato tra il 1981 ed il 1986 e la cui opera costituisce per lui un riferimento costante e ineludibile. E’ allo stesso modo impossibile non leggere, poi, nelle architetture di Dudler, la lezione di Mies van der Rohe, la cui poetica, proprio attraverso la sua opera, si dimostra, ancora una volta, assolutamente attuale. Le sue geometrie perfette, archetipiche, infatti, composte con pochissimi gesti e con pochissimi materiali, dalla pietra naturale all’acciaio, dal vetro al legno, si articolano in forme senza tempo, declinando “quella straordinaria capacità, tutta tedesca, di coniugare modernità e classicismo” (U. Siola, Napoli, Max Dudler e la cultura tedesca, in AA.VV., Max Dudler. Architetture per la città, Napoli, 2007, pag. 7).

Il rigore che caratterizza le composizioni di Dudler, però, non restituisce mai spazi freddi ed impersonali, nonostante l’ossessiva serialità della reiterazioni quasi prive di eccezioni di cui si avvale. E questo grazie forse alla matericità della sua architettura, all’uso sapiente della luce, all’eleganza delle proporzioni, allo studio attento dei rapporti e del dettaglio. Un dettaglio mai isolato, ma sempre riferito “all’intera ideazione architettonica” (M. Dudler, op. cit., pag. 13).
In Dudler la consapevolezza “civica” dell’architettura, del suo rapporto con la città e con la sua storia determinano edifici porosi, aperti verso la città stessa, in un continuo gioco di trasparenze e rimandi. La sua architettura scaturisce da un processo creativo che tenta di costruire “connessioni spaziali per mezzo di concetti architettonici” (Ivi, pag. 14), a partire dalla volontà di confrontarsi con lo “spazio culturale della città, così come si è formata nel corso della storia” (ibidem).

Quest’ attenzione per i contesti emerge già nel progetto per la Cabina di Trasformazione Elettrica di Berlino-Tiergarten (1986-1989), che offre alla città un’ideale “torhaus senza abitazioni” (F. Mangone, Sculture concettuali urbane, in AA.VV., Max Dudler. Architetture per la città, Napoli, 2007, pag. 16) caratterizzata da due volumi affiancati, l’ uno rivestito in alluminio, l’altro in mattoni faccia a vista.
La reiterazione del modulo di facciata è portata invece alle estreme conseguenze nei superbi edifici del complesso della Biblioteca diocesana di Münster (2003-2005), dove i nuovi corpi si pongono in silenziosa continuità con le preesistenze, determinando una serie di nuovi spazi urbani. Ma già nella sede Centrale della IBM Svizzera di Zurigo (2002-2004), composta da una torre ed un edificio a corte rivestiti in pietra naturale, troviamo declinato quel sapiente rapporto tra pieni e vuoti che garantisce un “giusto equilibrio tra solidità e trasparenza” (G. Crespi, Razionalismo concettuale, Casabella n° 745, 6/2006, pag. 43).
Il tema dell’inserimento in un complesso urbano molto delicato torna ad essere centrale nell’ampliamento del Ministero dei Trasporti e dei Lavori Pubblici di Berlino (1996-2005), dove la corretta integrazione del nuovo complesso nella città è affidata ad una attenta “mediazione” tra spazi pubblici e privati.
Il Museo Ritter di Waldenbuch, presso Stoccarda (2003-2005), invece, appare come un parallelepipedo precipitato in mezzo alla campagna. E’ questo un edificio tipicamente “non urbano”, in cui il controllo del rigoroso reticolo cartesiano di Dudler si allenta e dove, dietro la comunque palese semplicità del volume esterno, si nasconde un’ articolazione interna molto complessa, in parte denunciata in facciata dall’irregolarità delle aperture.

Nell’ opera di Duler vi è una evidente tensione etica, a partire dalla consapevolezza che l’architettura è un “fenomeno collettivo” (G. Malacarne, prefazione al volume Max Dudler. Architetture, cit., pag. 7). I suoi edifici, infatti, appaiono, oltre che ottime risposte a contingenti quesiti urbani ed architettonici, come opere-manifesto di un atteggiamento di grande sensibilità verso i contesti e verso la storia, severamente critico nei confronti di quelle architetture che “con la loro esplosione di creatività e i loro fuochi d’artificio (…) ci impongono con indebita soggettività le correnti alla moda”, edifici che “difficilmente lasciano ai fruitori alcuno spazio per esprimere la propria soggettività” (M. Dudler, op. cit., pag11). Un atteggiamento, quest’ultimo, lontano dai sensazionalismi e dalla volontà di stupire ed innovare a tutti i costi che, specie in area tedesca, stanno ricominciando a far proprio numerosi progettisti. L’assunto, per tutti, sembra essere quello che le ormai abituali architetture da “star system”, immerse “in un vano clamore” (G. De Carlo, Domus, n° 868, 3/2004), per dirla con Giancarlo De Carlo, forse fanno vendere copie di giornale e probabilmente – per qualche anno – fanno pure aumentare il flusso turistico delle fortunate località che le ospitano, ma troppo spesso non rispondono ai bisogni della città. Semplicemente perché non si pongono in alcun modo l’obiettivo di farlo, né hanno, verosimilmente, alcun interesse ad inserirsi nel tessuto delle relazioni percettive, sensoriali, culturali e storiche della città. “L’architettura che si riduce alla produzione di simboli facili (…) dirotta la memoria e questo la priva di una delle più importanti sue ragioni d’essere”, ci ammonisce ancora De Carlo, “la depotenzia a livello dei cartelloni stradali e degli spot televisivi e le impedisce di registrare il passato e tramandare il futuro” (ibidem).
E’ in questo solco che pare inscriversi dunque l’esperienza di Dudler, come d’altronde prima di lui quella di Ungers, poi quella di Hans Kollhof, ma anche di Peter Zumthor. Nel solco della convinzione, cioè, attinta ancora una volta a Mies, che “l’ architettura non ha bisogno di essere reinventata ogni lunedì” (M. Dudler, op. cit., pag 12).

Andrea Nastri

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