Il ‘giovane architetto italiano’ e la sua sorte – “PresS/Tletter”

mercoledì, 30 giugno 2010

La condizione di “giovani architetti italiani” è, oggi come oggi, una doppia iattura. In Italia, infatti, essere giovani – professionisti, artisti o altro fa più o meno lo stesso – significa essere considerati poco più che dei post-adolescenti incapaci ed inesperti, buoni al massimo per seguire pedissequamente il lavoro e le indicazioni di un “maestro”, spesso odioso e odiato, nella speranza che qualche briciola prima o dopo cada sotto il tavolo dove Egli, il “maestro”, lautamente mangia ogni giorno.

Il paradosso è evidentemente sempre il solito: come può diventare mai esperto il nostro giovane inesperto se non gli si consente di fare esperienza?

In Italia, come detto, questa riflessione può valere più o meno per tutte le professioni, ma non sfugga la particolare e disgraziata condizione dell’architettura. Bistrattata o meglio ignorata e misconosciuta pressocchè da tutti, come già Bruno Zevi denunciava una buona manciata d’anni fa nella prefazione del suo “Saper vedere l’architettura”, essa corre ancor più facilmente il rischio di un clamoroso svilimento. Da allora ne è passata molta di acqua sotto i ponti, ma le cose non appaiono invero molto diverse. Semmai peggiorate, perché alla pura e semplice ignoranza dell’ architettura – che non abbia almeno 200 o meglio 2000 anni di storia, s’intende, nel qual caso qualunque chiesaccia o palazzaccio assurge automaticamente a sublime opera d’arte – si è sostituito un interesse fittizio e deviato, a livello rubrichetta da rivista glamour, su argomenti sempre più fuorvianti per l’opinione pubblica che se ne ciba quotidianamente. La gente è così sempre più convinta, inevitabilmente, che fare architettura significhi allestire un più o meno riuscito set cinematografico o fondale teatrale, arricchito di mille ninnoli ipertecnologici come superlampade firmate da questo o da quel produttore “fico”, soluzioni e materiali all’avanguardia utilizzati alla bell’e meglio, un paio di bei quadri di artisti moderni sbattuti in salotto e un tocco di colore qua e là, che fa sempre molto anticonformista. Il risultato è che oggi tutti si arrogano il diritto di criticare, disporre, giudicare, scegliere, discernere in materia architettonica manco avessero tutti preso una laurea, letto milioni di libri e lavorato negli ultimi anni ai progetti più prestigiosi del mondo. Sarebbe come se chiunque si arrogasse il diritto di argomentare lungamente riguardo, che so, alla mappatura del genoma umano, criticando il tal scienziato per aver condotto male la tal ricerca, salvo poi scoprire che il criticone in questione fa l’impiegato delle poste. Certo, l’architettura riguarda tutti e non ci si può sottrarre ad essa ed anche alle sue brutture percorrendo le vie delle nostre città. Certo, l’architettura cala nei nostri luoghi di vita e di lavoro, condizionando a volte con violenza la vita di tutta la collettività. Ma tutto ciò dovrebbe guadagnarle semmai un pizzico di rispetto in più, derivante dalla comprensione dell’immane responsabilità del lavoro dell’architetto, piuttosto che renderla argomento da salotto in cui tutti possono sparare la loro fesseria, nella convinzione di capirci qualcosa. Sarebbe, perdonate l’ennesimo banale confronto, come dire che, poiché produrre una centrale nucleare è faccenda delicata, bisogna che tutti possano decidere in che modo vada fatto, mediante la convocazione di riunioni periodiche o magari con la pubblicazione di un forum settimanale su “Io donna”, aperto ovviamente alle opinioni autorevoli di tutti.

Il committente e l’opinione pubblica debbono avere un’ importantissima voce in capitolo nella stesura di ogni progetto architettonico, non vi piove, ma senza dimenticare che il mestiere dell’architetto è difficilissimo – anche per questa famosa necessità di tener conto del parere di tutti – e che spetta a lui quantomeno l’ultima parola dopo essersi sorbito le lamentele e le richieste di ciascuno. In fondo si dice che l’architetto debba essere un solutore di problemi, un sorta di abile enigmista. Almeno gli si faccia provare a risolverli, ‘sti problemi, una volta illustratagliene per filo e per segno la natura. Lo si faccia lavorare, in sostanza, niente di più e niente di meno, e lo si giudichi con competenza, o altrimenti magari, per dignità, si taccia. Ma fino a che l’argomento sarà così poco qualificato nel nostro paese, svilito a dibattito modaiolo oppure relegato a pura pratica professionale da geometri c’è poco da stare allegri. Ed ecco dunque la seconda iattura: provare a fare architettura in Italia oggi è un po’ come fare il sub in Austria o praticare l’hockey su ghiaccio in Uganda, avete presente? Da sfigati, insomma, visto che sono altri gli sport – e le professioni – che tirano e fanno guadagnare bei gruzzoli.

La condizione da “star” in cui si muovono ormai la maggior parte di quelli ritenuti – non si sa bene da chi – “grandi architetti contemporanei” non fa che peggiorare la situazione, ben adattandosi ad un atteggiamento come quello “all’italiana”. Forse è solo grazie ad un pizzico di discrezione ed intelligenza che uno come Renzo Piano non è stato ancora tra gli ospiti di Domenica In o di Porta a Porta. Fuksas, invece, credo ci sia già andato. E comunque, dietro di loro, c’è il vuoto pneumatico, perché ai mass media interessano solo i potenti, le “star”, mica le persone abili, colte e competenti!

E così al nostro giovane architetto italiano non viene data alcuna opportunità di crescere e confrontarsi con la professione, semplicemente perché non gli si dà l’opportunità di svolgerla, rimanendo inchiodato pressocchè a vita a quelle due terribili apposizioni, che suonano come una duplice condanna se accostate alla qualifica di architetto: “giovane” e “italiano”. Altrove, come si sa è diverso. Un mezzo straordinario di affermazione per i giovani architetti dei paesi civili è la fantomatica “disciplina dei concorsi”. “Win a contest and you are on the track”, disse un giorno il relativamente giovane architetto finlandese Markku Komonen durante una sua conferenza a Roma, non rendendosi evidentemente conto di parlare ad una platea composta in prevalenza dai suddetti “giovani architetti italiani”, che ben sanno come per trovare un concorso che sia possibile anche soltanto sperare di vincere (ben impostato, non truccato, con giuria imparziale, eccetera…) bisogna andare all’estero, in quei paesi lontani – ma che stanno sulla comunque sulla terra, non su marte – come la stessa Finlandia di Komonen o l’ Olanda, ad esempio. Si veda al riguardo il “caso Berlino”, dove decine e decine di interventi architettonici di straordinaria qualità eretti dopo la caduta del muro portano la firma di sconosciuti e talentuosi “giovani architetti tedeschi”, loro sì privilegiati, semplicemente perché gli è consentito di fare il loro lavoro.

Andrea Nastri

pubblicato su:  PresS/Tletter

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