Ricomporre l’unitarietà: il teatro di Hierapolis. Intervista all’architetto Paolo Mighetto – “D’Architettura”

venerdì, 18 giugno 2010

“Un progetto di ricomposizione”, semplice ed efficace, che muove da un profondo rispetto per l’edificio pur nella consapevolezza che ogni intervento su un manufatto resta “per sempre depositato sull’architettura” modificando in qualche modo la sua “futura lettura critica”.

Il teatro di Hierapolis, in Frigia, è un altissimo esempio di architettura teatrale romana in Asia Minore. Interessato nel corso degli anni da numerosi crolli, il teatro, per volontà del Governo turco, sarà restituito alla sua funzione di luogo per spettacoli e manifestazioni. In quest’ottica il progetto dell’arch. Paolo Mighetto per la risistemazione del palcoscenico, i cui lavori sono stati ultimati nel Settembre del 2006, si inserisce nell’ambito di un più ampio intervento esteso all’intero edificio scenico. 
Un progetto, quello di Mighetto, che spicca per alcune evidenti caratteristiche: la volontà di “ricomporre” ciò che il tempo e gli eventi naturali avevano “scomposto”; la distinguibilità del nuovo intervento; la sua completa reversibilità; la facile cantierizzazione delle opere.

Andrea Nastri: Nella relazione di progetto, a proposito della filosofia adottata per la sistemazione del palcoscenico del teatro romano di Hierapolis, lei parla della necessità di coniugare “distinguibilità” della integrazioni con “unitarietà della visione”. Come ha affrontato questa delicata sfida e in che modo questa scelta di fondo ha orientato il progetto?

Paolo Mighetto: Questa sfida costituisce il tema di fondo del progetto ed è per questo motivo che amo definirlo un progetto di ricomposizione: ricomposizione di un brano di architettura antica attraverso la formazione di uno spazio interno che si era perduto con il crollo dell’antico pavimento e, allo stesso tempo, il piano del palcoscenico che torna ad essere elemento centrale dello spazio teatrale e connessione delle differenti parti che compongono l’edificio teatro: la cavea, l’orchestra, il palcoscenico, l’edificio scenico. 
Attraverso il segno di quel pavimento siamo riusciti a ricostruire la meravigliosa sequenza prospettica degli archi trasversali del sottopalco, a ridare un senso di compiutezza alla raffinata fronte marmorea dell’iposcenio -rimontata e restaurata alla metà degli anni Ottanta-, a far dialogare le gradinate della cavea con la macchina dell’edificio scenico. Abbiamo contribuito, in sostanza, a ristabilire quell’unitarietà della visione che era stata annullata dai crolli conseguenti ai numerosi terremoti che da sempre hanno investito quest’area della penisola anatolica. 
Inteso come reintegrazione, il nuovo palcoscenico deve anche possedere i caratteri di reversibilità e di distinguibilità. In effetti, l’idea di assemblare una carpenteria metallica a cavalletto, fatta di elementi imbullonati fra loro, semplicemente appoggiata alle strutture di imposta degli archi trasversali con l’interposizione di fogli di neoprene, rientra pienamente nel tema della reversibilità: in quattro persone e con tre settimane di lavoro, senza particolari attrezzature di cantiere, si potrà smontare pezzo dopo pezzo il palcoscenico e tornare alla situazione precedente… ammesso che lo si voglia fare.

A.N.: Rispetto per il manufatto architettonico e chiara individuazione delle parti “aggiunte”, dunque. E’ questo un atteggiamento generalizzabile, a suo avviso?

P.M.: Il rispetto per il manufatto è la condizione essenziale e irrinunciabile per un intervento di restauro che, prima di ogni altra cosa, è una cura che ha quale fine la conservazione dell’oggetto architettonico. 
Studiando il manufatto ci si accorge ben presto che esso è un vero e proprio palinsesto sul quale l’azione della storia e dell’uomo hanno depositato strati successivi di trasformazioni, fino al momento dato dell’attualità. E’ proprio la lettura di queste progressive stratificazioni che contribuisce, insieme all’analisi delle fonti storiche, a formare quel giudizio di valutazione che sta alla base delle scelte che governano l’intervento di restauro. Ecco allora che qualunque nuovo intervento praticato sul manufatto deve poter entrare in gioco in una futura lettura critica dell’oggetto, perché comunque, che noi lo vogliamo o no, il nostro agire resterà per sempre depositato sull’architettura, configurandosi come una nuova fase di trasformazione.

A.N.: Dal punto di vista tecnologico, un intervento del genere richiede un alto grado di flessibilità e di reversibilità. E’ stato questo il principale riferimento per il progetto? Attraverso quale processo si è scelto di adottare una tecnica piuttosto che un’altra?

P.M.: Pur disponendo di una buona base di rilievo del teatro, preparata dall’Unità di Rilievo metrico e Geomatica del Politecnico di Torino e poi ulteriormente integrata dal nostro rilievo di dettaglio, la valutazione del margine di errore, la necessità di adattamento alle irregolarità delle strutture ed a una realtà di cantiere non particolarmente avanzata, hanno suggerito l’adozione, d’accordo con l’ingegner Franco Galvagno, di una carpenteria che fosse in grado di offrire regolazioni ampie e minute, sia in altezza sia in lunghezza. Il cavalletto metallico principale ha due mensole di estremità, di lunghezza di volta in volta diversa, che permettono di sostenere l’impalcato e le lastre più prossime alle lastre di copertura della fronte dell’iposcenio, marcatamente irregolari; la grande difficoltà è stata quella di disegnare una carpenteria estremamente semplice, ma adattabile alle irregolarità del contesto e perfettamente funzionale al sistema del pavimento soprastante, oltre che capace di migliorare le caratteristiche antisismiche del palcoscenico. 
La progettazione di una struttura in semplice appoggio a scavalco sugli archi esistenti inoltre, consente la lettura degli estradossi degli stessi archi, che rivelano essere stati in origine sedili della cavea, poi rilavorati e ricollocati nel corso del III secolo d.C. 
L’intervento non pretende una mimesi assoluta, ma è anzi pienamente consapevole dell’inserimento di una nuovo segno nel corpo dell’edificio;  tuttavia, in qualunque momento le condizioni lo richiedano, è possibile la completa rimozione e il ristabilimento delle caratteristiche pre-progetto, con semplicità ed economicità.  
Si è giunti a una vera e propria progettazione del cantiere e delle sue fasi, anche grazie alle professionalità dimostrata dalle imprese turche coinvolte, la Askon A.S per la carpenteria metallica e la Kömürcüoğlu Mermer per la pavimentazione di lastre di travertino. L’iter progettuale ha previsto anche una fase di sperimentazione, con la realizzazione di un modello di legno e metallo, a scala reale, della struttura poi realizzata.

A.N.: Lei dichiara che un contesto “difficile” come quello di Hierapolis ha condizionato certe scelte, tecnologiche e cantieristiche. In che misura queste considerazioni hanno influito sul progetto?

P.M.: E’ il contesto difficile di un sito archeologico posto in una cittadina che, pur rappresentando il quarto polo turistico della Turchia, resta pur sempre un piccolo centro di campagna. La progettazione dell’intervento e la pianificazione del cantiere si sono dovute confrontare con questo contesto e con la reale disponibilità di tecnologie, di materiali e di maestranze. Ciononostante, grazie alla cinquantennale esperienza della Missione Archeologica Italiana nei cantieri di restauro, al perfetto coordinamento assicurato dal Direttore della Missione, il professor Francesco D’Andria dell’Università di Lecce, alla presenza di operai specializzati formati in questi anni dal team italiano, il complesso cantiere è stato completato nel breve tempo di un mese. Un cantiere che è diventato esso stesso motivo di ulteriore attrazione per i turisti che si sono recati a visitare il meraviglioso spettacolo delle vasche calcaree di Pamukkale e delle rovine imponenti di Hierapolis di Frigia.

Andrea Nastri

Pubblicato su: D’architettura n°33/2007

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